Parecchi giorni fa ho finito di leggere il libro di Jonathan Safran Foer,
Se niente importa. È stata una delle letture più interessanti e coinvolgenti degli ultimi anni.
Ovviamente mi interessava molto l'argomento, e cioè le motivazioni che, come società, ci spingono a mangiare gli animali (il titolo originale del libro infatti è
Eating animals), ma sono stata conquistata dal modo con cui l'autore ne parla.
Jonathan Safran Foer è uno scrittore, e si vede. Siano esse completamente inventate, ispirate dalla realtà altrui o tratte dalla sua vita, le storie che fanno da contorno alla domanda "perché mangiamo gli animali?" ti legano al libro pagina dopo pagina. Per l’essere umano, raccontare storie è un rituale quasi “magico”; c'è qualcosa di profondamente radicato in tutti noi che ci fa assaporare il piacere delle parole quando non si limitano alla cronaca. Quella stessa malia che da bambini ci faceva addormentare dolcemente, da adulti ci rende molto più disposti a prestare l'orecchio ad argomenti difficili, se sono incorniciati in una storia capace di avvincerci.
Raccontando la realtà degli allevamenti intensivi, Foer segue il filo rosso della storia della sua vita familiare: all’inizio ci sono i ricordi legati all’infanzia e a sua nonna, alla fine le novità portate dalla nascita del primo figlio. La considerazione che sta alla base di tutto il libro è che mangiare è un atto culturale, e mangiare carne è diventato un atto culturale estremamente radicato nella nostra società.
Questo problema se lo pone prima o poi ogni vegetariano, quando si chiede perché tutti continuano a mangiare gli animali e si interroga sulla sorte della propria vita sociale. Prima che
Barbara diventasse vegetariana ne abbiamo parlato spesso; secondo lei, trascurare l’aspetto socio-culturale del cibo era un grave errore commesso soprattutto dalle varie associazioni che promuovono il vegetarismo. Prendiamo la scena classica che quasi ogni vegetariano ha vissuto: durante una festa di compleanno, il cenone di Natale, il pranzo di Pasqua o qualsiasi altra simile occasione, i tuoi parenti iniziano a fissarti come un pazzo che ha appena aderito a una strana setta. Il tuo essere diventato vegetariano o la tua scelta di diventarlo sono l'argomento del giorno, e niente li distrae da quel pensiero. Perché all'improvviso quello che mangio o non mangio è diventato così importante agli occhi degli altri? Tutto sommato, non saranno fatti miei e basta? Quando 8 anni fa sono diventata vegetariana, praticamente non mi sono posta il problema; sarà che tutto sommato la serata standard, dalle mie parti, si passa in pizzeria e quindi non avevo difficoltà a mangiare fuori casa, sarà stata la sfacciataggine e il muso duro dell'adolescenza, sarà anche che ero molto giovane e non avevo una grande vita sociale, ma all'epoca non mi importava di rinunciare ai prodotti di origine animale e alle possibilità di socializzazione che essi offrono.
Però, pensiamoci: i cibi della nostra recente tradizione, come i dolci delle feste e i piatti delle grandi occasioni, sono pieni di derivati animali. Noi non abbiamo la festa del Ringraziamento, col suo immancabile tacchino, che tanta importanza assume nel racconto di Foer, però abbiamo una varietà di cibi regionali, a base di carne o di pesce, che nella nostra mente sanno di festa e di cucina della mamma, che “fanno casa”. E l'idea di doverci rinunciare atterrisce molte persone che pure stanno valutando l'idea di diventare vegetariane.
Minimizzare non ha senso: il cibo è importante, soddisfa un bisogno primario, permea il nostro immaginario, ci fa sentire bene fisicamente ed emotivamente, crea occasioni di convivialità... la preferenza per una stessa pietanza può perfino renderci simpatica una persona appena conosciuta. Cosa succede quindi se d'un tratto smettiamo di consumare quelle tipologie di alimenti che, purtroppo, sembrano alla base della dieta dell'italiano medio? Pare quasi che si spezzi qualcosa, che si crei una frattura tra “noi” e gli “altri”, e a volte il timore che ti si crei intorno un vuoto sociale purtroppo non è ingiustificato: agli occhi dei tuoi amici andare a mangiare fuori può sembrare d'un tratto un problema insormontabile, e se ti invitano a casa per una cena vanno incontro al panico del "ma questo lo mangi?" oppure "e adesso che cosa cucino?!". Fino a qualche anno fa all'argomento non veniva data tanta importanza, ma le cose stanno cambiando e sempre più i siti che promuovono il vegetarismo offrono svariati consigli su come gestire lo smarrimento di parenti e amici davanti al cambiamento.
Ciononostante l'insistenza con cui Foer affronta l'argomento mi ha stupita positivamente: per me, il cibo ha una grande importanza, che non può essere minimizzata. Io non bevo caffè, e questo mi preclude molte cose, dal banale tentativo di corteggiamento a base di caffeina al momento di relax universitario davanti ai distributori automatici, per non parlare delle visite di cortesia nelle quali l'ospite non sa mai cosa offrirmi... L'importanza culturale del cibo è innegabile, e Foer la identifica con le storie che raccontiamo sul cibo, perché è con la narrazione che l’uomo crea e tramanda la propria cultura. Quando, da novello vegetariano, immagina le future giornate del Ringraziamento, Foer sa di dover trovare nuove narrazioni per i suoi nuovi cibi e le nuove abitudini alimentari.
Mi arrabbio molto quando vengo accusata di sentire la mancanza della carne perché mangio prodotti "sostitutivi" come burger, affettati, wurstel vegetali. Chi dice questo non comprende affatto i termini della questione. La carne l'ho mangiata, mi piaceva, ma poi ho scelto di smettere e non ricomincerei per nulla al mondo; non mi mancano il suo sapore o la sua consistenza, non mi manca la carne in sé, anzi. Ma a volte mi mancano i suoi significati, le narrazioni e i riti che vi costruiamo intorno.
Se la mamma che fino al giorno prima ti coccolava con lasagne e polpette non si sente più in grado di cucinare per te perché non sa cosa prepararti, ti si può spezzare il cuore. Se all'aperitivo tutti si riempiono il piatto e tu resti a stomaco vuoto, ti senti certamente escluso dal gruppo. E deludere zie premurose rifiutando i loro manicaretti può farti sentire terribilmente in colpa. Questo importa, nostro malgrado, ed è uno dei motivi per cui tutti finiamo per mangiare wurstel di tofu, burger di soia, straccetti di seitan, formaggi vegetali eccetera – oltre al fatto che sono buoni, intendo. Poter andare al
Rewild con un gruppo di onnivori e mangiare tutti insieme un cibo dal rassicurante aspetto di un hot-dog o di un hamburger, ma vegan, mette d'accordo tutti. Ti infonde la speranza di poter accordare felicemente una vita sociale sana all'alimentazione che ritieni più giusta per te.
Per te, ma non solo. Foer dà spazio all'insostenibilità ecologica ed economica degli allevamenti intensivi, spiegando come riescano a tenere i prezzi bassi esternalizzando alcuni costi, cioè facendoli drammaticamente ricadere sull'intera società. La storia degli scempi ambientali e sanitari causati da questi allevamenti fa accapponare la pelle ed è molto attuale, in tempi di superinfluenze e zoonosi sempre più diffuse. E anche se non ho ancora letto
La dieta skinny bitch, per quanto ne so di quest’ultimo, i due libri devono avere una certa affinità nel descrivere le vere e proprie schifezze contenute nei cibi di origine animale. Il brodo di merda resterà nei miei incubi per un pezzo.
Di contro, le sofferenze patite dagli animali sono quasi assenti: permeano tutte le pagine, ma in modo sottile, quasi invisibile. È soltanto alla fine che arrivano gli schiaffi in pieno viso. Alla fine, quando ormai hai abbassato le difese e pensi che quel libro, tutto sommato, sia innocuo, incruento, che nulla di quanto hai letto tornerà a tormentarti quando chiudi gli occhi. A quel punto arriva il racconto orribile delle violenze, del sadismo, delle torture, dritto dalla bocca di chi lavora nella filiera della carne. Testimonianze durissime, sconvolgenti nella loro “normalità”.
E qui mi è successa una cosa paradossale. Mi sono immedesimata in quelle persone, ho provato compassione per loro, mi sono messa nei loro panni, per quanto fosse folle e doloroso. Perché mi sembrava comunque folle provare pietà per chi incrudelisce senza alcun motivo su animali già condannati a morte, li tortura per sadismo puro e semplice e lo fa a ritmi così serrati, in tale quantità che alla fine lo trova normale... diventando una persona alienata dalla realtà umana, nel senso profondo della parola. Mi sono scoperta a chiedermi se potrei mai stare accanto a chi fa quel lavoro, mi sono risposta di no. Non potrei mai seppellire un filo di inquietudine, dovuto al pensiero che a furia di uccidere e fare a pezzi animali diventi un po' più facile uccidere anche le persone. Ma comunque, mi sono sentita scissa in due: da una parte il rifiuto di provare altro che odio e schifo per loro; dall’altra la pena per persone che capiscono di fare qualcosa di atroce e sbagliato ma vanno avanti, a volte perché non hanno alternativa.
Sorprendente, no? E non è tutto: Foer offre sempre più punti di vista, tutti differenti, sulle varie questioni trattate, e a volte il risultato è straniante. Provate a leggere le parole dell’allevatrice di bovini vegetariana, o quelle del vegano che progetta mattatoi... in un modo o nell’altro, ti scuotono qualcosa dentro.
Alla fine, tutti questi racconti costruiscono una storia più complessa, personale e universale insieme. Sono sempre documentati, le note del libro sono tantissime. Purtroppo, a proposito di documentazione e universalità, mi sono chiesta spesso se quelle cose valessero anche per l'Europa, per gli allevamenti nostrani. È una obiezione comune, da parte di chi mangia carne: tanto questo non succede da noi, quei video riguardano l'America / i paesi dell’Est / chissà dove... E allora, per chi ci tiene, c’è l'indagine nei macelli europei di un paio di anni fa,
in DVD, e i video di
TV animalista, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Pubblico adesso questo post perché ieri, mentre tornavo a Castellammare in pullmann, ho visto sfrecciarmi accanto un furgone stipato di pecore e sono rimasta attonita per qualche secondo. Spero di aver visto male, spero che quel mucchio di lana ammucchiata e pressata ed esposta alle intemperie non fosse così come l’ho visto.
Mi chiedo dove andassero quelle pecore, mi domando se adesso stiano soffrendo, o se siano state uccise ed abbiano smesso di soffrire per sempre. Quando d’improvviso mi trovo davanti una pescheria o la vetrina d’un macellaio mi ricordo di colpo che gli animali muoiono, ancora e ancora, perché la gente vuole mangiarli. Questo pensiero mi addolora... e mi sorprende, perché queste morti sono così futili, così evitabili. Non mi sento perfetta perché vegetariana, faccio ciò che la coscienza mi detta e che ritengo giusto in senso assoluto. Sì, vorrei che tutti smettessero di mangiare carne, lo vorrei tanto da non poterlo descrivere a parole. Vorrei porre fine alla sofferenza, ecco tutto. Mi sembra una possibilità così vicina, e così lontana dall’essere raggiunta, che mi si spezza il respiro quando ci penso. Mi si spezza proprio perché la vedo così vicina e facile da ottenere, e così lontana dal realizzarsi. Non mi sento migliore degli altri, ma sono così contenta, così contenta di essere fuori da tutto ciò.
Se niente importa non è un’opera di propaganda, ma un racconto toccante e profondo che spinge a riflettere su molte cose, non solo per ciò che dice ma anche per come lo dice: è scritto davvero bene, sarà per questo che il messaggio passa così diretto, al cuore e alla testa.
Non ho messo grandi citazioni perché invece di comprarlo l'ho letto in biblioteca e l'ho già restituito... un'ottima soluzione per una studentessa squattrinata.

Qui trovate un
elenco di quelle che ce l'hanno, ma in ogni caso chiedete alla vostra biblioteca comunale, e se non c'è suggeritene l'acquisto. A me è piaciuto tanto che voglio rileggerlo presto. E voi, lo avete già fatto?
Jonathan Safran Foer
Se niente importaPerché mangiamo gli animali?Guanda
2010
368 pp.
€ 18.00